La storia del mio ultimo uovo

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Qualche giorno fa un occhio veloce mi ha regalato una delle foto più belle che abbia mai avuto. 

Quando ho visto questo scatto il mio cuore ha avuto un sussulto così forte che proprio in quell’istante, alle 23:48 del 23 aprile 2022, a qualche chilometro da qui, in Bosnia, la terra ha tremato. Puoi controllare se non ci credi. 

In questa foto nata senza preavviso ho visto un’altra me, una me protagonista di una vita che non è la mia, accaduta in un’epoca e in un luogo che io non ho mai conosciuti. 

Ho aggiunto un velo di seppia alla fotografia per sentire più forte l’estraneità e la vicinanza con quella me che cammina disinvolta con la coda scompigliata, mentre questa me cerca di mettere in parola un’impressione sismica. 

Non aspettarti niente, questo quadro non ha nessuna morale e nessun senso.

Campagna del Sussex. Anche se indosso le Gazzelle è evidente che mi trovo nel passato. Quella me ha conosciuto la città solo per modo di dire. La città per lei è una frase fatta, un pettegolezzo, un groviglio di paura e desiderio. La sola realtà è l’acquitrino, sono le canne sospirose e i muschi giovani appollaiati sulle rive. La sola realtà è la realtà. 

Come farebbe sennò a incedere così, a passo sicuro e intraprendente, lungo un sentiero che si butta nel fiume?

Una cosa è certa: lei non ha mai letto Virginia Woolf, non è mai stata giovane negli anni Duemila, non ha mai fatto come Nick Cave che prega per la pioggia perché nella tristezza si impara a scrivere meglio. 

Lei è venuta prima di tutte queste sottigliezze, le precede, e io che la osservo dal presente vorrei quasi saltare nel suo mondo robusto e non andarmene più. In quel tratto di terra che anticipa il fiume non c’è traccia di certi pensieri, ci sono solo le bisce d’acqua, il tarassaco e le fragoline selvagge. Se c’è il crepuscolo, nessuno se ne accorge. Anche io ogni tanto so essere così.

La maggior parte del tempo, però, sono quella che a un certo punto ha iniziato a chiamare “natura” tutto ciò che non è di cemento, e a stupirsi di un pugno di penne come se non fosse cresciuta tra le galline.

Abbiamo in comune un paio di ricordi: l’odore del pollaio, il chiavistello che resiste un po’ alla mano, i piedi ritrosi che tentennano prima di correre veloci tra piume ed escrementi per scovare, forse, l’uovo caldo nella paglia. Entrambe lo portavamo al nonno fiere come se fossimo state noi a covarlo.

Vorrei che quell’antica parte di me diventasse il mio tutto. Ma a un certo punto ci siamo divise, e ora io sono anche l’altra. Sono anche quella che ha commesso l’errore di studiare, quella che nel bosco ha incontrato il lupo. Quella che l’uovo vorrebbe raccontarlo, più che raccoglierlo. Quella che a un certo punto, proprio quando la salita è finita, si gira sempre indietro a riguardare tutti i sentieri che non ha saputo scegliere. 

Ho perso la vista a furia di cercarmi fra le ombre di quei sentieri. Vedo solo il lembo di una veste grigiastra, impigliato fra le spine. Le mani di tutte le altre me mi trattengono al di qua del fiume.

Mi piacerebbe riuscire a ricordare com’era fatto l’ultimo uovo che ho raccolto, sapere se il suo guscio era chiaro o scuro, rugoso o liscio. Sono certa che quell’uovo contenesse un presagio. Se potessi rivederlo per un istante saprei qual è il mio destino, cosa racchiudo e cosa mi aspetta.

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