Il corpo scoperto.

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L’altro ieri sera, tramite un messaggio privato su Instagram, una persona che conosco da tempo ha espresso dei giudizi molto violenti sugli scatti fotografici che ho fatto durante il mio settimo mese di gravidanza. 

È stata la prima volta nella storia delle mie condivisioni online che qualcuno mi ha riservato delle critiche così personali e feroci, mettendo in discussione il mio valore come madre e come persona.

La mia prima reazione è stata il senso di colpa. D’altra parte io funziono così: quando qualcuno critica le mie scelte, io tendo a pensare subito di aver scelto male.

Questa volta però, dopo qualche istante di disorientamento, ho deciso che non mi sarei schierata a priori dalla parte della mia detrattrice e del mio censore interno. Mi sono detta che non posso più permettermelo, se non altro perché il confronto con giudizi e pareri non richiesti pare sia il pane quotidiano nella vita delle madri, specialmente di quelle che scelgono di esporsi al di fuori dello spazio grigio in cui nulla è criticabile perché tutto viene celato.  

Conviene farsi le ossa a cominciare da ora, mi sono detta. E volersi più bene.

Una volta arginate l’incredulità e le insicurezze, sono emerse alcune riflessioni che ora non riesco a organizzare in un discorso fluido, ma che vorrei provare a restituirti a macchia di pensiero.

  • Il corpo scoperto – nel mio caso parzialmente scoperto – è ancora una visione eccessiva, disturbante e difficile da sostenere. È evidente che nella nostra società questo valga soprattutto per i corpi femminili e per i corpi curvilinei. Proprio qualche mese fa una persona mi faceva riflettere sulla scabrosità delle curve in tutte le loro espressioni. Il corpo gravido è uno scandalo perché sintetizza ciò che maggiormente perturba e inquieta lo sguardo: la femminilità e la rotondità.

 

  • Conciliare la presunta peccaminosità del corpo femminile e della nudità con quei caratteri di purezza immacolata che ancora oggi si attribuiscono alla gravidanza è un’impresa ardua. Per quanto sia sorprendente, nel 2023 è ancora necessario nascondere la carne per gestire almeno in parte questo conflitto, che è destinato a esplodere non appena il corpo viene mostrato e celebrato in tutta la sua spontanea floridezza. Quando questo accade, il nero e il bianco si mescolano. Nell’osservatore disabituato a mettere in discussione la rigidità delle categorie, può scattare un cortocircuito che diventa un allarme; e così chi infrange le regole del falso dilemma tra profano e sacro viene tacciato di “sporcizia”, di aver contaminato la tela bianca della donna santa con l’indecenza della pelle.

 

  • Il corpo di una donna gravida non appartiene più alla donna sola – in una certa misura diventa patrimonio dell’umanità e strumento di sopravvivenza della specie. Se fosse ancora la natura a prenderlo in carico, il corpo gravido sarebbe tutelato, protetto e festeggiato nella sua pienezza. Immagino che questa celebrazione della vita nascente fosse il primo nucleo della spiritualità naturale e di tutti i culti rivolti alla fertilità e al rinnovamento della terra. Oggi il corpo gravido finisce dritto dritto nelle grinfie di una società che desidera soprattutto controllarlo e costringerlo, possederlo, smembrarlo, incasellarlo e depotenziarlo, con la scusa di difenderne la presunta fragilità. La donna a cui viene sottratto il suo corpo non è più autorizzata a scegliere liberamente come viverlo, come sentirlo, come rappresentarlo, come narrarlo. Se continua a esercitare questa libertà, è accusata di essere ancora troppo donna, che significa non ancora abbastanza madre, e cioè ancora troppo padrona di se stessa.

 

  • La nostra società, intrisa di una concezione manichea e cattolica dell’esistenza, tende a guardare con un misto di sospetto e invidia chi si gode il proprio corpo, chi esprime la gioia di piacersi e chi si concede qualunque forma di autoerotismo. In particolare, le donne che giocano con la loro immagine sono sempre esposte alla ferocia del giudizio. Le accuse, non a caso, sono letteralmente bibliche: immodestia, impudicizia, mercimonio. Nel caso della gravidanza l’aggressività si acuisce. Nella visione cattolica e manichea, d’altra parte, la “buona madre” è per eccellenza colei che si ritira nell’ambiente domestico e ammutolisce, che si copre e scolora la propria immagine, che sacrifica se stessa per darsi in pasto a una nuova identità esclusiva ed escludente di tutto il suo resto. È soprattutto colei che, espletato il suo incarico riproduttivo, rinuncia a ogni forma di piacere e di autocompiacimento.

 

  • L’interazione degli individui nello spazio dei social network è soggetta a due forme di squilibrio. Da una parte ci si dimentica che al di là dello schermo non ci sono solo profili ma anche e soprattutto persone, e che a differenza dei profili, le persone non sono costruite a tavolino per corrispondere sempre alle aspettative di un pubblico. Dall’altra parte e contemporaneamente, a furia di frequentare la casa virtuale di qualcuno, si corre il rischio di confondere una parte con il tutto e di ritenersi in grado di comprendere e giudicare l’interezza di un individuo a partire da ciò che viene selezionato per essere condiviso. Queste dinamiche agiscono identicamente in qualsiasi altro scenario della nostra esistenza, ma nel caso dei social e dell’online la presenza di uno schermo riduce ogni inibizione a colpire l’oggetto della propria frustrazione. La delusione che deriva da un’aspettativa tradita o da una fantasia non incarnata, in questo contesto viene manifestata senza esitazioni. In altre parole, ogni forma di rispetto e di educazione nei confronti dell’altro, se non è autentica, decade.  Ciò che non decade è la sofferenza di chi subisce l’aggressività di un giudizio che, di fatto, non lo riguarda. 

Delineare queste macchie di pensiero mi è stato molto utile. Per una volta, io che tendo a non rimarcare la dimensione politica dei miei valori – almeno non in modo esplicito -, sono riuscita a sviluppare qualche acerba riflessione in questo senso. 

Resta il fatto che mettere a fuoco questi pensieri mi è servito soprattutto per non disintegrarmi di fronte a una delle accuse più pesanti, superficiali e premature che mi siano mai state rivolte. Se fossi stata meno razionale, meno autocritica e meno insicura di così, non avrei avuto bisogno di investire un solo secondo in queste riflessioni. 

Avrei piantato a terra dei paletti molto chiari e avrei restituito al mittente le sue accuse senza perdere dieci minuti di sonno.

E poi avrei tirato un sospiro di sollievo, ammettendo che in quest’epoca di capi branco e di fazioni, di frasi fatte e di parole d’ordine, si sta diffondendo almeno un concetto molto prezioso: l’idea che siamo tutti, nessuno escluso, portatori più o meno sani di pregiudizi, e che spetta solo a noi riconoscerli e metterli in discussione. 

Sono felice di aver pazientemente smantellato quel pregiudizio che per molti anni mi ha fatto storcere il naso alla vista di un corpo a cui fosse concessa più libertà di quella che io non concedessi al mio. 

Sono felice di aver imparato in questi mesi quanto può essere fragile la mente di chi vive un cambiamento, qualsiasi esso sia, e quanto sia prezioso soppesare le parole e scegliere la gentilezza, specialmente se si vuole esprimere un parere che entra nel merito delle questioni più sensibili della vita di una persona.

Sono felice di non aver indossato la tunica monastica della gravidanza perfetta.

Sono felice soprattutto di aver imparato a mettere in discussione me stessa ogni volta che la libera scelta di un’altra donna mi fa sentire punta sul vivo e mi suscita rabbia o indignazione. 

Ormai ho capito che quando questo accade significa che una piccola parte di me è rimasta troppo a lungo inascoltata ed è venuto il momento di distogliere lo sguardo dall’altra e di rivolgerlo verso me stessa. 

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