Un paio di Celesti fan

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Per tutta la mia adolescenza – e per un altro bel po’ di tempo – la questione principale per me era arrivare a una definizione, in un modo o nell’altro. Il mio mondo era popolato da esseri umani dotati di contorni precisi, gente tosta e decisa, che ascoltava sempre lo stesso genere musicale, che aderiva a uno stile specifico, che frequentava i suoi simili e aveva atteggiamenti coerenti con la parte di mondo a cui sentiva di appartenere. E poi c’ero io, che un giorno ero convinta di essere proprio una darkettona incazzata con il mondo, e dopo due settimane cominciavo ad ascoltare Simon and Garfunkel e manifestavo per la pace. Nel frattempo, magari, mi ero rasata i capelli e avevo buttato via tutti i vestiti colorati, ma in un modo o nell’altro prevaleva sempre il bisogno di rimodellare le mie caratteristiche manifeste. Il mio peso corporeo, i miei gusti, il mio orientamento, le mie inclinazioni, le mie preferenze si sono trasformati infinite volte, e tutt’ora le fotografie che risalgono a un paio di Celesti fa mostrano un fenotipo molto diverso da quello che è visibile ora.

Venire a capo di tutto questo oscillare è stato il vero viaggio dei miei primi 34 anni di vita, e nonostante ora io sappia condurre questa nave con mano più o meno gentile e salda, ogni tanto disimparo a leggere le stelle. E quando disimparo, arriva una cortina di confusione e nebbia che assomiglia tantissimo a queste gelide giornate milanesi. Perdere la bussola significa dimenticarmi che io sono tutto. Che tutti siamo tutto. Che ogni cosa è tutte le altre. Che la nostra scelta ricade sulla metafora migliore, sull’involucro a cui siamo più sensibili, ma il contenuto di ciò che selezioniamo è sempre sostanzialmente il medesimo.

(E quel contenuto siamo noi stessi)

Il mio insegnante di epistemologia ayurvedica, che forse sta diventando la cosa più simile a

un Maestro fra quelle che ho conosciuto, mi ha dato questa incredibile immagine del bambino nell’utero della mamma: una creatura che riceve innumerevoli informazioni dall’ambiente, e non sa contenerle tutte quante insieme. Perché possa farlo, è necessario che la natura gli dia l’illusione di avere cinque sensi ben distinti, capaci di dare conto della complessità dell’universo passando attraverso la semplicità dell’Uomo.

Non sono davvero in grado di capire cosa significhi tutto questo per la scienza, ma per me significa che l’Uomo è un’entità semplice, con delle risorse molto limitate, e ha bisogno di tanti contenitori ordinati che gli permettano di afferrare e conoscere aspetti diversi di un’unica grande matrice. Penso che il mondo attorno a noi sia simile a un grande passato di verdure che andrebbe gustato a cucchiaiate, ma per poterlo assaporare noi umani abbiamo bisogno di distinguere la carota, la zucchina, la melanzana e ogni singolo granello di riso.

 

In questi giorni, guidando le mie prime classi di Yoga dopo il nepente delle vacanze di Natale, ho avvertito una legnosità sul tappetino che arrivava quasi a limitarmi nell’espressione di ciò che avevo da dire o nella costruzione di un percorso fluido da condividere con gli studenti. E’ una forma di insicurezza che ogni tanto affiora e che mi costruisce attorno una specie di prigione dell’energia: mi sento scolastica e limitata, e ritorno improvvisamente l’adolescente che non sa se è una dark o una figlia dei fiori. Forse io vorrei insegnare la danza, prendere tutti i tappetini e appenderli al muro. Forse è la vocazione terapeutica che prevale: ormai devo concentrarmi sull’Ayurveda e mollare tutto il resto. Forse il corpo non risponde più perché in realtà io sono nata per studiare: che grandissima cavolata ho fatto a mollare la carriera accademica! O forse no, perché a pensarci bene io ho sempre voluto scrivere. E comunicare. Se solo avessi studiato recitazione… E canto. Se solo fossi riuscita a capire per tempo che non era la chitarra il mio strumento, ma il pianoforte.

Un tempo, prima di aver imparato che tutto sta dentro a tutto quanto il resto, mi sarei arrabattata come un pipistrello che sbatte ciecamente fra le mura della sua scatola. Ora mi basta aspettare con pazienza e fiducia che l’onda discendente del mio ciclo si trasformi in un trampolino di lancio. E questo trampolino, quando si materializza, mi proietta nel minestrone sublime dell’universo, in cui tutti gli ortaggi e gli involucri esplodono e resta solo il loro contenuto.

E lì accade che ogni essere umano che amiamo – uomo o donna o di qualunque genere sia – è soltanto una forma dell’amore che abbiamo dentro, e ogni espressione del nostro corpo tangibile è solo la dimora provvisoria della nostra anima. Persino la parola “Yoga”, la parola “danza” o “canto” o “terapia” diventano solo etichette sbiadite. Le lettere si mescolano e i tappetini cessano di definire un limite. Restano solo il mio fuoco, l‘espansione del mio minuscolo io verso i luoghi che amo condividere, e “insegnare” torna ad essere come esprimere, come comunicare, come curare quel grande corpo vivente che tutti gli esseri umani hanno in comune.

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