“Se mi prendi la voce, che cosa mi resta?”

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ATTO PRIMO

Le cose sono due: o il corpo è misteriosissimo, o non lo è per niente.

Le scorse settimane molte delle mie energie sono state consumate attorno al tema “parlo o non parlo, mi espongo o non mi espongo, mi vergogno o non mi vergogno”. Non lo dico per ripetere ancora una volta la lista dei pensieri e dei desideri contraddittori che hanno accompagnato alcune delle mie recenti scelte “comunicative”.

Lo dico perché subito dopo ho perso la voce. Completamente, giustamente. Ed è interessantissimo.

Tu cominci a esercitare una serie di tensioni attorno a una sfera, e se esageri quella sfera si rompe. Se le tensioni riguardano ciò che vuoi, puoi, devi dire, rischi di perdere la voce. In un primo momento avevo scritto “tensioni emotive”, poi mi sono corretta in “tensioni emotive e fisiche”, alla fine ho deciso di eliminare entrambi gli aggettivi, perché voglio iniziare ad adeguare il mio linguaggio a ciò che credo dell’Essere Umano – e io credo che l’Essere Umano non abbia una natura trinitaria. Non l’avevo mai afferrato così nitidamente, ma la concezione cattolica di Dio è uno specchio perfetto della visione “una e trina” che l’uomo occidentale ha di se stesso: c’è la mente, simile a Dio Padre, c’è il corpo, che assomiglia al Figlio, e c’è lo spirito, che neanche a dirlo è lo Spirito Santo.

Io non so dire se questa tripartizione dell’Essere Umano sia nata per poter parlare di una realtà troppo grande per essere abbracciata tutta insieme, un po’ come i “fenomeni emergenti” che la matematica descrive per dare conto della complessità dell’Universo. Appena mi torna la voce giuro che telefono al mio amico Andrea e gli chiedo di aiutarmi a capire se in principio queste tre categorie fossero solo uno strumento ermeneutico, o se per l’Occidente siano sempre state vere. Quello che mi pare chiaro è che a un certo punto la distinzione tra espediente e realtà, ammesso che ci sia mai stata, è rovinosamente crollata, e i tre concetti di “mente” “corpo” e “spirito” sono diventati effettivi, autonomi e indipendenti. Insomma, ci crediamo proprio che esistano, almeno quanto crediamo che i cinque sensi siano davvero cinque e ben distinti.

Da quel momento in poi, è diventato necessario specificare se una tensione riguardi la mente e lo spirito o il corpo. Quando dici che stai male ti chiedono “ma intendi fisicamente o emotivamente?”. Se racconti di avere il cuore affaticato ti domandano se è solo una metafora o se c’è un problema “reale”. Se lamenti una certa stanchezza subito vogliono sapere se è stanchezza fisica o mentale. C’è addirittura chi desidera approfondire i rapporti di causa-effetto, e si domanda se sei triste perché sei malato, o se sei malato perché sei triste. Come se la tristezza e la malattia non fossero la stessa cosa.

Penso che Freud a un certo punto abbia provato a dircelo che l’Io è un’entità corporea e che ogni impulso rimosso produce un sintomo nel corpo, ma noi continuiamo a stupirci ogni volta che il corpo diventa il simbolo perfetto della mente. E in ogni caso anche questa intuizione geniale del Soma come Sema presuppone la convinzione che ci sia un corpo e ci sia una mente.

Anche se mi costa tantissimo ammetterlo, credo che una delle rappresentazioni più belle della nostra Unità l’abbia fatta la Disney, e sono quasi certa che non ne avesse la benché minima intenzione. Mi rendo conto che citare la fiaba di Andersen sarebbe meglio, ma la verità è che da piccolina preferivo infilare la cassetta nel videoregistratore e ammirare una Ariel in carne ed ossa, una Sirenetta vera con una schiera di sorelle bellissime, che non richiedeva troppi sforzi alla mia fantasia. A me non interessava molto che Ariel avesse la coda da pesce, mi stavano sui nervi i suoi amici crostacei e nemmeno mi importava di sapere se sarebbe mai riuscita a farsi sposare da quel belloccio in camicia bianca. A me interessava la questione della voce. Mi ricordo che ogni volta sobbalzavo sul divano, quando la Sirenetta apriva la bocca e improvvisamente non usciva più nulla.

Non mi sono mai chiesta se avesse preso freddo, se si trattasse di un problema fisico alle corde vocali o se ci fosse qualche connessione con la vicenda sentimentale che la stava sottoponendo a un certo grado di stress psicosomatico. A me era semplicemente chiaro che la storia di Ariel non fosse solo la cronaca di una brutta influenza. Quella voce e quel silenzio contenevano tutto quanto: erano vibrazioni, che producono materie, che producono Esseri Umani, che producono destini.

Quando ho perso la voce ho pensato subito a lei, all’immagine naive di una Sirenetta afona, che proprio come me e come tutti ”accade” insieme alla sua storia. Ci facciamo e ci disfiamo con la tela del nostro racconto, analogicamente perfetti.

ATTO SECONDO

L’atto secondo sono io che mi domando quali immagini unire a questo testo che parla dell’assenza di voce e di altro. Voglio che in questo spazio ogni post sia accompagnato da un apparato iconografico, ma ci sono delle regole ben precise: non serve che ci sia un collegamento razionale e palese tra figura e parola, ma io devo sempre avere un’urgenza chiara che mi spinge alla scelta; non devo riflettere troppo per trovare qualcosa, altrimenti l’associazione diventa forzata.

Per la prima volta non avevo intuizioni ed ero un po’ in crisi, perché il contenuto mi sembrava buono, ma non potevo pubblicarlo.

Poi, mentre valutavo di arrendermi e inserire un fotogramma della Sirenetta, è bastato alzare gli occhi e ricambiare lo sguardo della libreria, che mi fissava da un pezzo.

Stasi nel buio.

Poi l’insostanziale azzurro

versarsi di vette e distanze.

Leonessa di Dio,

come in una ci evolviamo,

perno di calcagni e ginocchi! – La ruga

s’incide e si cancella, sorella

al bruno arco

del collo che non posso serrare,

bacche

occhiodimoro scuri,

lanciano armi –

boccate di un nero dolce sangue,

ombre.

Qualcos’altro

mi tira su nell’aria –

Cosce, capelli;

dai miei calcagni si squama.

Bianca

godiva, mi spoglio –

Morte mani, morti stringenze.

E adesso io

spumeggio al grano, scintillio di mari.

Il pianto del bambino

nel muro si liquefà.

E io sono la freccia,

la rugiada che vola suicida

in una con la spinta

dentro il rosso

occhio, cratere del mattino.

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