Racconto di Pasqua

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Ho sempre festeggiato la Pasqua come Franco Battiato, facendo scalo a Grado e correndo in bicicletta lungo mare, nel vento freddo e amarastro del Friuli. Da nessun’altra parte in Italia fa vento così, e in nessun altro luogo la Pasqua si festeggia altrettanto bene. 

Non credo sia un caso che anticamente Grado fosse il porto di Aquileia, un paese famoso per le pesche gialle. In pochi sanno che le pesche gialle aquileiesi sono solo diversivi messi lì dalle gerarchie ecclesiastiche per distogliere l’attenzione dei viandanti dal mosaico parlante della Bianca Chiesa. 

La Bianca Chiesa è una basilica petrosa e riflettente che sorge in una vasca di sole chiaro. Per raggiungere il mosaico parlante devi attraversare la conca di albume fino alle scale e da lì, se ti affacci, vedi le onde tasselle. Centinaia e centinaia di policromi sminuzzati ondeggiano di fronte ai tuoi occhi, di conchiglia, di vetro e di mattone sbriciolato.

Il mosaico si chiama parlante perché racconta una storia segreta, quella del Grande Sabato pasquale e di Dio che lascia il mondo in un tempo sospeso, vuoto, senza respiro. Mentre il mondo è in apnea, il Dio fatto uomo scende giù fino alla gola dell’inferno, come Odisseo, Orfeo e gli Arcade fire. Le onde tasselle raccontano questo silenzio attraverso la storia di Giona, inghiottito dal mostro marino e poi addormentato fra le cucurbite e le pesche gialle. 

Quest’anno non ho potuto fare niente per difendere la mia tradizione: niente bicicletta nel vento, niente conca di albume e niente onde tasselle. Eppure, fra le mura della mia casa piena di incensi e di altari indiani, la voce del mosaico d’Occidente ha parlato.

Venerdì il cielo si è fatto scuro per qualche minuto, come sempre accade da quando ne ho memoria. Il sole c’è, ma le nuvole lo coprono tra le 15:00 e le 15:10. Sfido chiunque a negare questo sacro occhiolino. Come tutti gli anni quando l’ho visto accadere mi sono commossa. 

Di Sabato tutto si è slacciato. L’orologio si è interrotto, ho fatto colazione al posto della cena e in un clima né freddo né caldo ho praticato e pregato dentro a forme senza scheletro. Yoganidrasana è arrivata dopo anni, con il cuore che affonda nell’Ade e il pergolato di Giona sulla testa. 

La mia Pasqua non è domenicale, perché quello è un tempo che mi ricorda Costantino e l’inizio di quel cristianesimo da cui scappo da sempre. Eppure quest’anno ho ricevuto un dono. Cercando un libro a caso fra i miei scaffali, ho pescato “Resurrezione” di Tolstoj, sottotitolo: cinquecento pagine ingiallite. Cinquecento pagine ingiallite sulla Pasqua. 

Dopo tre ore ero già a metà, ho fatto scalo nelle campagne petroburghesi. C’era Battiato e c’erano anche Nehljudov, Katjusa e il loro sangue giovane. “Lui lo sapeva che in lei c’era quell’amore, perché quella notte e quel mattino, l’aveva sentito in se stesso e aveva sentito che in quell’amore lui si fondeva con lei in un unico essere”. 

Manca poco alla fine, la storia di Nehljudov e della sua redenzione corre veloce come questi giorni di Pasqua e di quarantena. Mentre leggo il grande russo amato da Gandhi mi sembra di comprendere meglio il racconto delle onde tasselle. Bisogna scendere fino all’inferno per rinascere uomini nuovi.

Da 2021 anni è tramontata l’epoca degli invincibili. La mia fragilità s’innamora di se stessa, mentre il Dio capace di morire mi saluta dal suo cielo.  

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Tramontami dentro

tu che vieni alle mie labbra quando prego

sottile

il tuo nome come un segno. 

Sei risorto ma non subito.

Hai atteso un Grande Sabato

per sentirti come me:

misero e solo. 

È nel buio della morte 

che ti incontro, Dio dei vivi,

 quando incrocio le caviglie attorno al collo

e il mio cuore scende agli inferi.

La radianza della tua sera

spezza il laccio del mio pube. 

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