Il concetto di “categoria” è un tema importante e ricorrente nella mia vita. Da bambina ero appassionata di collezionismo: amavo scegliere categorie di oggetti e raccogliere l’incontenibile vastità delle loro rappresentazioni. Da adolescente mi spaccavo la testa con domande buffe e inconsapevolmente platoniche, del tipo: “Come facciamo a capire che tutti i cani rientrano nella categoria ‘cani’, se ogni cane è diverso dagli altri?” – o ancora: “Cos’è che ci permette di intuire che un chihuahua è un cane e non un gatto, anche se è più simile a un gatto qualsiasi che a un alano?”.
Non molto tempo dopo, in Università, accettavo che le classificazioni della scienza non esauriscono affatto la complessità del reale e sono solo strumenti al servizio della nostra mente e dei suoi limiti. Nella gran parte dei casi, però, l’essere umano sembra comportarsi come se le categorie esistessero davvero e la natura fosse a loro asservita. Il risultato di questo fraintendimento è lo sforzo costante di infilare le manifestazioni del reale – che sono uniche e imprevedibili – dentro a una vasta gamma di schemi predefiniti e rassicuranti.
Questa, almeno, è la trappola nella quale io casco e ricasco: spaventata dall’indole incontenibile e riottosa della natura umana, rimbalzo da una categoria all’altra, da una definizione all’altra, da un’etichetta all’altra, da una camicia di forza all’altra. Con il tempo sto imparando a capire che poco conta quanto ampia o angusta, comoda o scomoda, autentica o forzata, pavida o coraggiosa sia la categoria nella quale mi classifico. In qualsiasi caso, non appena mi ci infilo, la vita mi mette di fronte all’esuberanza della natura.
L’esuberanza della natura è quella parte che d’improvviso germoglia fuori dallo schema, è la gramigna che sopravvive al diserbante, la tempera che oltrepassa i confini marcati del disegno. Credo che nella maggior parte dei casi le cose davvero importanti della vita si manifestino proprio in questa forma: come un’esuberanza innegabile che si impone allo sguardo e chiede di essere riconosciuta, come un’abbondanza scomoda e deliziosa che abbatte con vigore le mura delle categorie. Più forte accade la vita, più invecchiano le etichette.
Ogni giorno, srotolando il tappetino, so di srotolare tutto il mio complesso rapporto con il tema dell’identità e delle categorie. Le prime volte che entravo nello schema predefinito di un asana, avvertivo tutto il peso soffocante della categoria, dell’etichetta, della camicia di forza. Mi sentivo vincolata e spesso rabbiosa, mettevo in discussione il senso stesso di costringere il mio corpo nell’ennesima definizione. Avrei voluto assumere forme più morbide, più affini alle mie possibilità, più fluide, più libere. All’epoca “libero” significava ancora “sregolato”, “disordinato”, “disperso”.
Con il tempo, ho trovato la parola che mi ha permesso di sanare questo conflitto e di percepire l’infinita libertà che è sempre disponibile dietro allo schema e alle sue necessità. Questa parola è “esuberanza”. Mentre il mio corpo aderisce alla forma della posizione, si nutre e beneficia della sua storia millenaria, la mia mente è posizionata sull’”esuberanza”, sulla “rimanenza”, su tutto quello che sta accadendo fuori dalla categoria. Il mio corpo si ricarica della tradizione e del noto, ma la mia mente e il mio sentire sono come la gramigna e la tempera, indomiti e pacifici allo stesso tempo. Lo sguardo interiore esplora territori che si rendono manifesti proprio grazie alla staticità e al conformismo della posizione: più stabile è lo schema, più impetuosa è l’energia che scorre; più pura è la linea, più giovane è il respiro.
Stare “fuori” dalle categorie non significa stare senza. Oggi “libero” significa “unito”, “cosciente”, “ritrovato”.

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