Il Dr. Nagarajin

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Questo signore vestito di bianco e appollaiato in una foto rubata non sa che dall’altra parte del globo c’è qualcuno che lo pensa quasi quotidianamente, e che non ha idea di dove andare a cercarlo. Se non l’avesse conosciuto anche Sara, un’affidabile compagna di studi yogici, probabilmente mi sarei convinta di non averlo mai incontrato, e che i suoi insegnamenti inestimabili fossero il frutto di una vocina interiore saggissima, dotata di ironia, schiettezza, severità e amore.

Di lui so soltanto che insegnava pranayama e filosofia classica in una scuola di Lakshmi Puram, un quartiere che sembra la Nolo indiana – genuino, popolare ma consapevole di se stesso. So che voleva bene a sua moglie, ma si era riservato una stanza tutta per sé nella loro casa che non ho mai visto. Nonostante le mie preghiere, era stato inamovibile: gli asana non li insegnava a nessuno, perché “insegnare asana porta soldi, e i soldi portano guai“. So che era dottore in filosofia e in medicina ayurvedica, che conosceva il sanscrito a menadito e sapeva condividere la sua cultura vastissima con chiarezza, trasparenza e generosità. So che non sapeva se in India abitasse qualche vero illuminato, perché se pure ci fosse stato, sicuramente non si sarebbe fatto trovare dalla gente. “Non aspettarti di trovare un maestro tra i maestri famosi“, diceva. So che la sua pratica personale era l’Ashtanga Yoga – ma quello di Krishnamacharya – e che insegnava un pranayama delicatissimo, senza numeri, senza sforzi, senza conti. Mi ricordo che una mattina, durante la meditazione dell’Om, la mia voce divenne flebilissima e i miei occhi incapaci di staccarsi dalla fiamma della candela. “Questo accade quando i sensi si ritirano“, mi disse. Ho dovuto capire da sola che ero stata brava.

So che non credeva nelle diagnosi ayurvediche troppo veloci, non cambiava mai abbigliamento e mi spronava a prendere come oggetto di meditazione Gesù Cristo, perché riteneva paradossale e vuoto che noi occidentali ci lasciassimo sedurre dall’esotismo delle divinità indiane. “Tutto è Dio, e tu sei Italiana: pensare a Ganesh è una posa, non ha alcun senso“. Ho sempre creduto che avesse ragione, ma non sono ancora riuscita ad arrivare così tanto alla sostanza.

So che nutriva un certo sospetto per la filologia occidentale, che a suo parere spaccava il cappello in quattro per poi mancare il vero significato delle cose. “Voi studiosi d’Europa pensate che Vyasa non sia l’autore del Mahahbarata perché vi sembra impossibile che un solo essere umano abbia potuto scrivere così tanto. Potrei convenire con voi su questo, non fosse che Vyasa si limitò a dettare e che fu Ganesh a scrivere l’opera! Nessun intellettuale può raggiungere il Samadhi!”. (Ndt: il suo inglese era inappuntabile.)

Mi ricordo quanta fatica mi costava tacere e quanto avrei voluto ribattere che bla, bla, bla. All’epoca ero fresca di dottorato e abbastanza radicata nelle mie certezze metodologiche, peccato che tutto il mio essere, dalla testa ai piedi, fosse completamente, perdutamente, appassionatamente d’accordo con lui.

Il Dr. Nagaraji è stato per me un autentico Guru, nel senso più alto del termine. I suoi insegnamenti mi hanno liberata dalle maschere che portavo e mi hanno infuso il coraggio di cambiare rotta. Come un vero Guru mi ha indicato la strada senza dire niente, e poi è scomparso nel nulla. Prima di tornare in India ho provato a cercarlo e ho trovato un numero di telefono a cui non ha mai risposto – la parola “consegnato” non è mai comparsa. Se in India c’è rimasto un vero illuminato, di certo non si fa trovare dalla gente, ma io so chi è.

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