Enjoy it while it lasts

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Piazza Brisa è uno dei posti che più amo della mia città. Ci sono le rovine romane, le spighe ocra e i fiori di malva, le palazzine bianche che succhiano il sole e una pozza di specchi e mattoni. È uno di quegli angoli che ti si compongono davanti agli occhi quando capisci come si fa a decifrare la bellezza della piantina sregolata di Milano.

Da un paio di anni tutti i lunedì alle 7:10 del mattino annodo la mia bicicletta a uno dei lampioni e penso la stessa cosa: piazza Brisa è sempre in evoluzione, chissà quando finiscono i lavori. Possibile che non si riesca a vederla compiuta, finita, uguale a se stessa per un paio di settimane. Finché continua a cambiare mi scivola dalle mani come una saponetta e ho la sensazione che qualcosa mi impedisca di gustarla e persino di amarla.

Ieri mattina, mentre giravo la chiave nel lucchetto, ho pensato a quanto è forte e insopprimibile il bisogno umano di immaginare che esistano scelte definitive. Una casa che sia per sempre, un “insieme” eterno, una città in cui mettere radici, la professione della vita, una piazza senza lavori in corso. Un peso corporeo stabile, un orientamento sessuale definito, una scelta alimentare irreversibile.

Un insegnante che diventi “il Guru”, uno stile di Yoga in cui riconoscersi una volta per tutte, un mantra da chiamare “il mio”.

In quasi tutti i casi la tensione verso l’immutabile si manifesta in modo così immediato e spontaneo che neanche ce ne accorgiamo. È un filtro invisibile, un’abitudine mentale che viene fuori dal cassetto dei pregiudizi applicati subdolamente alle cose – è un automatismo che sfugge alla mano della coscienza.

Ieri invece, di fronte al bianco sale di piazza Brisa, ho avuto un istante di lucidità abbacinante e ho sentito tutta l’insofferenza e la paura che la provvisorietà genera. E subito dopo ho osservato la reazione della mia mente che si irrigidiva e produceva un’aspirazione estranea alle logiche del nostro mondo: il sogno della permanenza, quel momento finale a cui si rimanda la felicità. Tutto sarà più bello e semplice quando diventerà definitivo.

Il presente, intanto, scivola via come un’occasione persa.

Il desiderio di stabilità è uno dei paradossi più grandi dell’essere umano, e non è semplice dipanare i fili che compongono questo nodo. Ci si ritrova quasi subito strozzati, perché se da una parte cercare la permanenza è una forma di attaccamento alla vita, dall’altra provare a “congelare” le cose è l’espressione più tipica del nostro innato istinto di morte. Parlo di un istinto di cui non siamo davvero consapevoli e che ci frega quando stiamo guardando dall’altra parte, come il bisogno impellente che si insinua tra le fibre dell’inconscio quando mandiamo un messaggio inutile proprio mentre stiamo guidando, per dire.

Mentre rimandiamo tutto a quel momento in cui il profilo delle cose diventerà un tatuaggio, disimpariamo a riconoscere i sentieri cancellabili che il presente ci mette costantemente di fronte e che si integrano molto meglio con la geografia della natura e con le traiettorie evanescenti dei suoi pianeti.

La rotondità perfetta che continuiamo a cercare crea circuiti ripetitivi e inerti, logoranti e artificiosi come l’energia del laboratorio. Invece se provo a dare una forma e un colore alla vita, vedo i contorni violacei e irripetibili di una medusa, una bolla di fiato che si disperde senza traccia, una massa ellittica che attraversa il cielo e trasforma ogni cosa, una spiga dorata e fragilissima nel cuore di Milano – che oggi c’è, pulsante come la regina del sole, e domani sparisce, e non si sa se torna.

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