Dilagare

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Tornare al lago per me è sempre un’esperienza particolare, perché è lì che il bosco delle memorie e delle domande si fa folto e intricato. Mi domando cosa ci sia di mio lì dentro, sapendo che la risposta non può essere approssimativa.

Dire una cosa come “la malinconia” non è sufficiente, perché il legame tra un animale e il suo ambiente non è mai una questione di retorica o di immaginario cinematografico. È un tema genetico ed esistenziale, che si esprime nei tratti somatici e negli istinti per le cose.

Non sto dicendo esattamente che da una bambina lacustre ci dovremmo aspettare piedi palmati e sangue dolce, ma in qualche modo forse sì, sarebbe legittimo aspettarselo. Se spalanco la finestra dei miei pensieri e smetto di ragionare in termini di probabilità, mi rendo conto che sarebbe più stupefacente il contrario.

Forse è anche per questo che tornare ai propri ambienti non è la cosa più facile del mondo, perché lì davanti agli occhi abbiamo il grande quaderno dei nostri segreti.

Il mistero di quel battito cardiaco che ogni tanto si fa pesante, come se ci fosse una catena montuosa ad arginarlo. I fondali mobili che divorano gli occhi e impediscono una chiara visione, anche se rimuovi la miopia con un’operazione. L’istinto a cercare uno sbocco, l’incontinenza degli argini, la fame di essere fiume. La quiete in superficie e la pericolosità delle correnti. Il cielo mai terso. Le ginocchia fragili del monte e le anche aperte delle valli.

C’è tutto. Com’è per le oche, per le giraffe, per i serpenti e per le serpentesse, così è anche per gli esseri umani.

(Questo post è stato pubblicato su Instagram il 1 Marzo 2020)

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