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Il bello è che ogni cosa in natura si muove quando e come vuole. Non esiste nulla che si ripeta identico a se stesso e non esiste il concetto di regolarità: non ci pensiamo mai che in natura fra due movimenti non intercorre mai lo stesso intervallo di tempo.
Eppure il movimento avviene in armonia, e anche quando è veloce, sincopato o vibratile restituisce un senso di quiete e integrazione.
Noi umani invece siamo fragili nel nostro movimento: abbiamo bisogno di sapere esattamente quando, come, dove e perché di ogni parte, di ogni respiro, di ogni gesto. Abbiamo bisogno di “informazioni” nel senso etimologico di “cose che imprimono una forma”.
Forse la differenza è che la natura non si muove: si presta a essere mossa. Noi invece siamo sempre abituati a concepire il movimento come sinonimo di azione, e ogni azione per accadere ha bisogno di un sistema di resistenze che la renda specifica, efficace, orientata.
Quando guardo le spighe, anche quelle educatissime e preziose che Milano conserva, mi convinco che dovremmo disorientare i nostri movimenti. Basterebbe sollevare la partecipazione attiva e immaginare che il nostro corpo sia ancora capace di lasciarsi guidare. I recettori dell’epidermide, i muscoli tensori del pelo, i corpuscoli che raccolgono le vibrazioni: è da qui che dovrebbero nascere l’onda e la rincorsa, il salto e la resistenza, la forma, la postura, il ticchettio, la permanenza.
(Questo post risale al 16 febbraio 2020 ed è comparso sulla mia pagina Instagram)